Le tesi della Sinistra:
Il movimento rivoluzionario operaio e
la questione agraria
( «Prometeo», N° 8, Novembre 1947 )
Lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo nel campo della produzione dei manufatti sorge nella società moderna
col capitalismo, quando è realizzata la condizione tecnica del lavoro
associato. Il lavoratore viene espropriato del prodotto del suo lavoro, ed una
parte della sua forza di lavoro gli viene sottratta per andare a costituire il
profitto del padrone. Questo schema così semplice non basta a rappresentare il
rapporto tra lavoratore e padrone nel campo dell’agricoltura, dove la
rivoluzione finora svoltasi non ha sostanzialmente modificato la tecnica
produttiva, ma quasi soltanto i rapporti giuridici tra le persone sociali. Alla
base dell’economia agraria sta l’occupazione della terra, attuata all’origine
grazie alla forza militare di gruppi e tribù forti o di capi guerrieri, che
invadevano territori di altri popoli o si fissavano su zone libere. In verità,
anche per la disposizione padronale della forza di lavoro umana si parte dalla
occupazione ottenuta con la forza bruta, quando si istituisce l’economia
schiavistica con l’assoggettamento dei popoli vinti. Ma nella società moderna,
a cui ci siamo riferiti, anche prima del prevalere dell’economia capitalistica,
l’occupazione violenta della persona umana era stata soppressa. La società
feudale non ammetteva più la schiavitù.
Invece, l’occupazione
della terra, conservata nel sistema feudale, di cui è anzi la base, è
perfettamente ammessa e sanzionata giuridicamente in pieno regime
capitalistico. Ciò significa praticamente che il proprietario di una vasta
estensione di terreni agrari, pur restando inoperoso, ne trae la rendita
fondiaria, senza essere stato perciò costretto ad introdurre nella tecnica
produttiva la risorsa di una forma associativa dell’opera dei lavoratori che
sfrutta.
Abbiamo cioè la grande
proprietà ed il grande possesso, senza che necessariamente essi costituiscano
una grande azienda unitaria, ossia un organismo in cui ciascun lavoratore ha
mansioni specializzate. La grande azienda agraria esiste, ed ha il carattere di
un’intrapresa capitalistica applicata all’agricoltura, con largo apporto di
capitali industriali sulla terra, come macchine, bestiame, impianti diversi,
ecc., ed impiega operai salariati (braccianti agricoli), che sono purissimi
proletari. Il titolare di questa grande intrapresa può coincidere col
proprietario immobiliare della terra, e può essere un grande affittuario
rurale; in teoria potremmo anche avere la grande azienda industriale agraria
sovrapposta al piccolo possesso, se il capitalista avesse trovato conveniente
prendere in fitto un gran numero di piccole proprietà private contigue.
Tornando al grande
possesso, esso può invece vivere, e vive fino ad oggi, anche in grandi paesi
capitalistici, sovrapposto alla piccola azienda, quando il grande proprietario
(latifondista) tiene il suo possesso diviso in piccoli lotti, su ciascuno dei
quali vive e lavora con tecnica primitiva una famiglia contadina. Il lavoratore
allora non è espropriato totalmente del suo prodotto come il salariato, ma ne
rilascia una grossa quota allo sfruttamento padronale o in natura (colonia
parziaria, mezzadria) o in denaro (affitto). Il colono, il mezzadro o
affittuario può perciò essere considerato un semi-proletario. Vi è poi, sempre
in regime prettamente borghese moderno, la piccola proprietà aderente alla
piccola azienda.
Il contadino piccolo
proprietario è un lavoratore manuale, ed osserva in generale un basso regime di
vita; ma non è un proletario, perché resta padrone di tutto il prodotto del suo
lavoro; non è neanche un semi-proletario, appunto perché non cede nessuna
quota; però, nel giuoco delle forze economiche, sente il peso del dominio delle
classi privilegiate attraverso gli alti oneri fiscali, l’indebitamento verso il
capitale finanziario, e così via. La sua figura sociale ha il parallelo in
quella dell’artigiano, sebbene la sua figura giuridica sia diversa, e lo
accomuni teoricamente al grande proprietario. Infatti, il capitalismo, per
liberarsi dalle pastoie medievali, non ha avuto la necessità di infrangere gli
istituti giuridici che regolano la proprietà immobiliare, ed ha anzi pressoché
testualmente adoperato l’impalcatura del diritto romano, per cui in teoria lo
stesso articolo del codice disciplina il rapporto di proprietà su pochi metri
quadrati e su immensi possessi.
Ciò che il capitalismo
ebbe invece bisogno di infrangere fu il sistema giuridico feudale di origine
soprattutto germanica, che faceva del piccolo contadino, sfruttato sul grande
fondo, una figura intermedia tra lo schiavo ed il libero lavoratore.
Il «servo della
gleba», oltre a subire vere estorsioni nel rilascio delle quote al
proprietario fondiario ed alle sedi ecclesiastiche, era vincolato al suo luogo
di lavoro. Il capitalismo doveva liberarlo da questo suo servaggio, come doveva
liberare gli immiseriti artigiani dai vincoli delle mille leggi e regolamenti
sulle corporazioni di mestieri, perché l’uno e l’altro divenuti uomini liberi
di vendere ovunque la propria forza di lavoro, costituissero le armate di riserva
della produzione salariata.
La rottura di questi vincoli giuridici costituì la rivoluzione borghese ed è dunque chiaro che essa, come d’altra parte non abolì in teoria nemmeno l’artigiano, lasciò piena cittadinanza al principio della produzione agraria basata sull’occupazione della terra, e non consistette, dal punto di vista della legislazione, in una diversa ripartizione della proprietà privata del terreno.
* * *
Indubbiamente, tra le
varie forme accennate di aziende agrarie la più simile all’industria capitalistica
è la grande azienda unitaria, la più lontana è la piccola azienda, divisa
giuridicamente nei due tipi della proprietà minuta e del latifondo.
Non è esatto dire il
latifondo una sopravvivenza del regime feudale, poiché esso esiste anche dopo
l’abolizione radicale e violenta di tutti i vincoli feudalistici. Può tendere o
meno a spezzettarsi, come la proprietà spezzettata può tendere o meno ad essere
riassorbita in grandi tenimenti o in aziende unitarie moderne; ma tali fenomeni
si svolgono nel quadro del moderno regime borghese per effetto di ragioni
tecniche e di congiunture economiche.
Nella chiara condanna del
capitalismo industriale nello schema storico comunista, per cui lo sfruttamento
della forza-lavoro verrà soppresso con la conquista della direzione della
società da parte dei lavoratori, quale posto prende il ciclo di trasformazione
della produzione rurale?
Per quanto riguarda la
grande azienda moderna, essa è pronta a subire la sorte dell’industria per il
fatto stesso di essere basata sulla tecnica del lavoro associativo.
I salariati agricoli di
essa, pur avendo lo svantaggio sociale e politico di non essere riuniti nei
grandi agglomerati urbani moderni, procedono di pari passo al proletariato
industriale nel formarsi del potenziale di classe rivoluzionario.
I semi-proletari, ossia i
coloni e i mezzadri, mentre non possono avere una parallela coscienza di
classe, possono attendersi dalla rivoluzione proletaria industriale un grande
vantaggio sociale, poiché questa, pur favorendo in ogni fase il prevalere delle
forme associate di lavoro e la concentrazione delle piccole aziende in aziende
più vaste, sarà la sola che potrà, contemporaneamente alla abolizione dello
sfruttamento padronale, abolire radicalmente e per la prima volta nella storia
il sistema dell’occupazione privata della terra.
Ciò vuole dire che il
piccolo affittuario o mezzadro sarà non reso padrone della terra che coltiva,
ma liberato dall’onere di pagare il tributo della sua forza di lavoro
costituito dal canone in danaro o in natura, che prima percepiva il
proprietario fondiario. In altri termini, la rivoluzione proletaria industriale
potrà immediatamente sopprimere il principio della rendita fondiaria; anzi, per
uno dei tanti rapporti dialettici nel giuoco delle forme sociali e storiche,
potrà sopprimere molto più rapidamente e generalmente il principio della
rendita fondiaria che quello del profitto del capitale industriale.
Venendo al piccolo
proprietario, teoricamente la questione è diversissima in quanto la rendita
fondiaria del suo campo va già oggi a suo beneficio e non si distingue
amministrativamente dal frutto della sua forza di lavoro. Indubbiamente non
avverrà in questo campo una rivoluzione se non in uno stadio ulteriore, in
quanto tutte le piccole aziende o prima gestite da affittuari o coloni parziari
ovvero da piccoli possessori, passeranno più rapidamente che non potessero
farlo nell’ambiente dell’economia borghese a raggrupparsi in grandi intraprese
agricole unitarie socializzate.
In nessun caso, quindi,
si può presentare il riflesso agrario della rivoluzione proletaria come un
episodio di ripartizione o di nuova occupazione della terra, e come la
conquista di terra da parte dei contadini. La parola «piccola proprietà al
posto della grande proprietà» non ha alcun senso, la parola «piccola
azienda agraria al posto di grande azienda agraria» è prettamente
reazionaria. Su questo punto va chiarito quali svolgimenti del ciclo possano
avere realizzazione prima della caduta del potere borghese. È un errore classico
dell’opportunismo il presentare come possibile alle masse rurali l’abolizione
della rendita fondiaria da parte di un regime industriale capitalistico, sia
pure il più avanzato. Rendita terriera e profitto industriale non sono propri
di due diverse e contrastanti epoche storiche. Essi hanno una perfetta simbiosi
non solo nella classica impalcatura giuridica borghese, ma nei processi
economici dell’accumulazione del capitale finanziario. Nonostante le
sostanziali differenze fin qui dimostrate nei due campi della produzione, essi
hanno un ceppo comune nel principio della sottrazione al lavoratore di una
parte della sua forza-lavoro, e nel carattere mercantile della distribuzione
dei prodotti, comuni a quelli dell’industria e a quelli dell’agricoltura.
Quindi la parola della socializzazione della rendita fondiaria senza una
rivoluzione delle classi operaie è un’idiozia, che può degnamente appaiarsi a
quella della socializzazione del capitale monopolistico nell’ambiente
dell’economia dell’intrapresa privata.
Un’altra delle posizioni
dell’opportunismo è poi quella che si debba attendere la concentrazione in
grandi aziende dell’economia agraria prima di parlare di una rivoluzione
socializzatrice sia dell’industria che dell’agricoltura. Tale concetto è
disfattistico, in quanto la stessa natura mercantilistica dell’economia
borghese ed il suo evolversi verso forme sempre più speculative ed affaristiche
lasciano prevedere che il capitale privato non si trasporterà con vasto respiro
nelle intraprese di miglioramento fondiario che offrono pochi profitti a troppo
lunghe attese alla remunerazione in confronto ai colossali affari industriali e
bancari.
Ora la sostituzione della
grande azienda alla piccola azienda, sia essa libera che stretta nei latifondi,
non può avvenire senza radicali trasformazioni della tecnica, e ritarda dove
queste, per ragioni naturali, sono troppo costose (altimetria irregolare,
malsania idraulica, poca feracità dei terreni, ecc.) e solo un’economia a
carattere altamente sociale potrà dislocare le enormi masse di forze produttive
necessarie alla trasformazione.
Infine, la parola della
distribuzione dei latifondi ai contadini in regime borghese è anche priva di
senso, in quanto voglia promettere una espropriazione senza indennità contraria
agli istituti dello Stato borghese, ed è puramente demagogica in periodi nei
quali né lo Stato, né la classe capitalistica possono disporre di capitali
mobili e della mobilitazione di risorse produttive necessarie ad eliminare
alcuni caratteri tecnici delle peggiori forme di latifondo, come la mancanza di
case, di vie, di canalizzazioni, di acqua potabile, l’imperversare della
malaria, ecc.
Indubbiamente, farà parte
del programma agrario della rivoluzione operaia, insieme alla soppressione di
ogni rendita fondiaria, una transitoria ridistribuzione in gestione delle terre
agrarie, nel senso di dare possibilità di uniforme applicazione alla forza
lavorativa della classe contadina per quella parte che non potrà essere messa
sul piano sociale dei lavoratori di aziende collettive.
Comunque, questa diversa ripartizione non della proprietà, ma della consegna in gestione della superficie terriera non potrà avere nei paesi capitalistici moderni la portata sociale e storica che ebbe nella Russia del 1917, nella quale la conquista del potere da parte del proletariato industriale compì non solo la prima soppressione del principio del padronato fondiario, ma anche quella del regime terriero feudale, rimasto praticamente in vigore nell’impero zarista anche dopo l’abolizione giuridica della servitù della gleba, promulgata nel 1861.
* * *
Nei paesi prettamente capitalistici, la classe operaia industriale rivoluzionaria comprende senz’altro il bracciantato agrario delle grandi aziende, e cerca di evitare il ricadere del bracciante nella figura del piccolo contadino; può considerare come alleati i semi-proletari del piccolo affitto e della colonia parziaria, tollerando che questi aspirino alla disposizione libera della loro terra, che solo la rivoluzione può attuare; solo con grandi riserve e transitoriamente potrà attendersi un appoggio positivo da parte dei contadini piccoli proprietari non ancora rovinati e proletarizzati dal capitalismo, ed anzi, in periodi di crisi delle impalcature industriali dovute alla guerra ed alla sconfitta, dovrà attendersi che, nella loro maggioranza, i piccoli proprietari rurali, sfruttando per l’alto prezzo dei prodotti agricoli la crisi economica e vedendo divenire meno instabile la loro posizione sociale, data anche la loro incapacità come classe ad intravedere cicli storici di lungo respiro, alimentino la politica dei partiti conservatori.
Partito comunista internazionale
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